La fattispecie prospettata dal lettore prevede che la compagine sociale della costituenda Società startup sia composta da un unico socio. In tal caso, ancorché non esista un divieto legislativo, appare non compatibile la contestuale veste di socio e lavoratore subordinato, mancando il presupposto della subordinazione.
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Eventualmente il socio unico potrebbe rivestire anche la carica di amministratore (unico) e percepire un compenso per l’esercizio di tale attività.
L’art. 2479 c.c. prevede che i soci decidono in merito alla nomina (se prevista nell’atto costitutivo) degli amministratori. Quindi, ai sensi dell’art. 2389, l’assemblea (ordinaria) dei soci delibera l’ammontare dei compensi spettanti agli amministratori (sempre che tali compensi non siano stati stabiliti nell’atto costitutivo).
Dopodiché non esiste, legislativamente parlando, un minimo e/o un limite ovvero una misura stabilita al quantum del compenso.
Determinanti sono i principi di cui all’art. 2423 bis c.c., in particolare il principio della prudenza.
Il legislatore si preoccupa di salvaguardare il patrimonio della Società, poiché rappresenta, in generale, l’unica fonte da cui attingere per onorare i debiti della Società. Pertanto, la determinazione del compenso deve essere effettuata con criteri di congruità, equità, ragionevolezza e di prudenza. Dovrebbe essere il risultato di una libera contrattazione tra l’organo amministrativo e la proprietà. Tale contrattazione dovrebbe tenere conto delle dimensioni, della struttura, delle risorse, nonché degli obiettivi della Società, e la determinazione di tale compenso potrebbe utilizzare, per esempio, un modello incentivante.
Idealmente, entrambe le parti dovrebbero essere libere e indipendenti l’una dall’altra, invece, come verosimilmente risulta dalla fattispecie prospettata dal lettore, non solo non sono indipendenti, ma sono rappresentate dalla medesima persona (il socio è anche amministratore). E’ abbastanza frequente che il socio, altresì amministratore, privilegi la carica di amministratore (perché in questo modo è comunque garantito un compenso) in contrasto con gli interessi della Società, ossia con sé stesso in qualità di socio.
Per esempio, se la società “fattura” 1.000 euro in un anno (esempio estremizzato), anche un compenso di 100 euro potrebbe essere non congruo e non equo, perché verosimilmente sottrae risorse alla società che non riesce più a pagare i debiti “ordinari”. In questo caso, potrebbe essere plausibile la manifestazione di un abuso emerso in sede deliberativa, e ciò potrebbe, appunto, creare un danno al patrimonio sociale piuttosto che essere considerato un’indebita appropriazione di utili.
Dall’altra parte, compensi troppo elevati, pur in presenza di una sana e florida struttura finanziaria ed economica della Società, potrebbero essere considerati dall’Agenzia delle Entrate, un artificio elusivo volto a distribuire utili mascherati da compensi.