Di per sé non esiste uno specifico divieto legislativo alla fattispecie proposta dal lettore. Tuttavia, occorre sempre verificare la compatibilità giuridica della figura del Presidente del Consiglio di Amministratore con quella del lavoratore subordinato. Il fatto che i poteri direttivi, di vigilanza, disciplinari vengano “affidati” ad altro Consigliere (e non certamente ad un mero socio) non risolve l’elemento cardine del lavoro subordinato, ossia, appunto, la subordinazione. Infatti, il Presidente di un C.d.A., oltre ai consueti poteri conferiti dal codice civile in tema di convocazione del consiglio di amministrazione, di determinazione dell’ordine del giorno, del coordinamento dei lavori, potrebbe essere investito da altri poteri statutari che potrebbero incidere sull’andamento della società.
Risulta difficile riconoscere come “genuina” la subordinazione del Presidente del C.d.A. nei confronti di un Consigliere delegato per poi trasformarsi, di volta in volta, magari anche ripetutamente nella medesima giornata, in autorità che il medesimo Presidente andrebbe ad esercitare, anche nei confronti di quello stesso Consigliere, che fino a pochi minuti prima era il suo “capo”!
L’Inps, con la circolare del 8 agosto 1989 n. 179 ha affrontato la figura del soggetto che riveste una carica amministrativa che rende evanescente la sua posizione di subordinazione rispetto agli altri. E’ il caso del presidente, dell’amministratore unico e del consigliere delegato. In tali casi, prosegue l’Inps, i suddetti soggetti esprimono da soli la volontà propria della Società, compreso anche i poteri di controllo, di comando e di disciplina. In altri termini, in veste di lavoratori, essi verrebbero ad essere subordinati di sé stessi, fatto non giuridicamente possibile. Per essi pertanto, continua la circolare Inps, “in linea di massima, è da escludere ogni riconoscibilità di rapporto di lavoro subordinato e della conseguente assoggettabilità agli obblighi assicurativi.”